Nella precedente divagazione scrivevo che ormai è maturata la coscienza riguardo l’impossibilità di andare avanti distruggendo risorse senza rigenerarle. Riflettevo anche sulla crescente consapevolezza che si va diffondendo di una svolta urgente e radicale.
Abbiamo ben presente, insomma, che stiamo vivendo «su un vero e proprio vulcano sul punto di esplodere», però si prova anche la sensazione (le giovani generazioni non perdono occasione per ricordarlo) che questa coscienza di una vita in pericolo non produca quello scatto che invece razionalmente pensiamo sia necessario. Che succede? Cosa blocca questo passaggio? Quali barriere ostacolano l’azione?
L’immagine del vulcano la prendo a prestito da un capitolo di un recente lavoro di Miguel Benasayag e Bastien Cany, Il ritorno dall’esilio. Ripensare il senso comune (Vita e Pensiero, 2021), che si interroga su queste domande (p. 67).
Le prove del disastro ecologico e climatico si accumulano. E tuttavia, la reazione attesa non c’è. Ci si indigna, ci si scandalizza, si vibra all’unisono con chi lancia l’allarme, ma queste vibrazioni non scatenano mai terremoti.
Alcuni pensano che causa di questo comportamento incoerente siano freni sociali, barriere mentali, desiderio di rimuovere la realtà ed eclissarla. Noi cerchiamo sicurezze in effetti e quindi costruiamo da sempre «meccanismi di stabilizzazione attraverso la rimozione di intere parti della realtà».
Questa lettura psicanalitica spinge a chiederci, allora, a cosa serva la razionalità se poi ci dimentichiamo volutamente di quello che accade, incuranti della minaccia per la vita nostra e per quella delle generazioni successive.
La questione può essere sintetizzata così: il pensiero non si fa azione, viene bloccato, deraglia dalla via che lo condurrebbe all’esito atteso (un comportamento coerente con le premesse) che non si realizza.
È un tema in verità che interroga da sempre studiosi e protagonisti della vita «del fare», sollecitando ad indagare le ragioni più profonde di questo scollamento proseguendo la ricerca. Per farlo mi servo di un altro spunto che trovo altrove.
La situazione descritta sembra bloccare il «contestare». Cosa voglio dire? Rifletto su questo lasciandomi guidare da una pagina dell’ultimo libro di Ivano Dionigi, Benedetta parola. La rivincita del tempo (il Mulino, 2022). Un volume affascinante che consiglio di leggere.
Dionigi, al pari di Benasayag e Cany, rimane stupefatto davanti alla circostanza che tutti siamo «contestatori» di una situazione senza però che accada nulla. Dionigi pensa, ma qui non mi trova d’accordo, che gli stessi giovani hanno «abdicato al loro ruolo naturale di “contestatori”, come bloccati e anestetizzati dall’incertezza, dalla paura e dal cinismo degli adulti».
Il professore emerito di Lingua e Letteratura Latina dell’Università di Bologna, scavando e lavorando con le parole, spiega meglio il suo stupore di fronte a fatti che lascerebbero immaginare come inevitabile la contestazione che però non accade, o quantomeno non accade con quella forza che richiederebbe la circostanza di essere seduti sull’orlo del precipizio di un vulcano che minaccia di esplodere.
Lasciamoci ispirare allora dal significato di «contestazione» leggendo il brano che vi propongo (pp. 166-167):
Contestazione. Forse mai come oggi gli uomini sono stati nelle condizioni di «contestare», vale a dire di «essere insieme [cum] testimoni [testis]» di ciò che accade. Il web planetario non ci da tregua, mettendoci tutti in relazione […] È, questo, il tempo in cui tutti dovremmo non subire ma interpretare e orientare questa chiamata collettiva, direi universale: «contestare» ciò che di bello, di giusto e di vero sperimentiamo, e ciò che di brutto, di ingiusto e di non vero mettiamo in atto.
Ritorna l’idea del blocco, di una ragione che è incapace di far scattare l’azione decisa e prorompente di una collettività che condivide la razionalità dell’intervento ma poi non lo implementa.
La sola razionalità è evidente allora che non basta, occorre rivolgersi altrove. Ma qual è questo «altrove»? É il cuore, sono le emozioni, la mancanza o insufficienza di una narrazione capace di toccare e coinvolgere anche il «corpo» che bisogna elaborare con maggiore cura?
Sono domande che ci invitano ad esplorare altri terreni, per esempio quelli che volgono lo sguardo alle motivazioni più spirituali che fondano l’azione e il comportamento umano, o ancora che ci interrogano sulla necessità che il cambiamento da innescare non può essere soltanto a livello individuale quanto piuttosto a livello comunitario.
Fritjof Capra, padre del pensiero sistemico, in un illuminante dialogo con Carlo Petrini dice che per trovare le soluzioni che cerchiamo «dobbiamo costruire delle comunità». Secondo Capra, infatti, oggi i principali ostacoli «per avviare una transizione che ripristini una relazione armoniosa con la casa comune che ci ospita» non sono la mancanza di conoscenze, ossia la mancanza di razionalità intesa come pensiero. Conoscenze e razionalità abbondano, piuttosto gli ostacoli sono da ricercarsi in barriere etico-morali:
la teoria non è tutto, ma deve fare i conti con l’etica, ossia con un comportamento orientato al bene comune, e con la nostra scala di valori.
Viene così suggerita un’area di indagine che promette bene per provare a districarsi nella fitta boscaglia delle questioni dalle quali è nata questa divagazione. Lavorare sodo per accrescere il sentimento di appartenenza a una stessa comunità può essere dunque un terreno fertile per coltivare e accarezzare possibili risposte.
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