La seconda divagazione che propongo per questa calda estate ci fa fare un salto. Dalla ricchezza, nobiltà e decadenza della famiglia di Ignazio Florio in Sicilia ci porta nella più fresca Ivrea per ricordare Adriano Olivetti, un imprenditore strano, fuori dal cliché dominante, per questo visionario e profetico. Andiamo dunque indietro nel tempo, circa settanta anni fa e ottanta anni dopo invece la storia dei Florio che ha fatto da sfondo alla prima divagazione. Siamo pertanto nel mezzo.
Dovrei dire che si tratta di una divagazione strettamente associativa perché a far viaggiare il pensiero solleticando la memoria è proprio uno dei brani del libro di Salvatore Requirez che ho proposto tre giorni fa, mi riferisco alle iniziative intraprese da Ignazio Florio per sostenere il benessere dei suoi dipendenti. Come non pensare, leggendolo, alle idee un po’ strampalate che Adriano Olivetti aveva dell’impresa e della sua funzione? Per rendersene conto basta riportare alla memoria questo passaggio del Discorso di Natale pronunciato a Ivrea la sera del 24 dicembre 1955. Leggiamolo:
«Organizzando le biblioteche, le borse di studio e i corsi di molta natura in una misura che nessuna fabbrica ha mai operato abbiamo voluto indicare la nostra fede nella virtù liberatrice della cultura, affinché i lavoratori, ancora troppo sacrificati da mille difficoltà, superassero giorno per giorno una inferiorità di cui è colpevole la società italiana».
L’impresa che deve pensare a elevare culturalmente e spiritualmente i lavoratori fa venire i brividi per quanto scalda il cuore. Non vi pare? Certo, siamo in un’altra epoca e Adriano Olivetti – proprio mentre l’ideologia neo liberista fondata sulla massimizzazione del profitto come unica responsabilità sociale dell’impresa, teorizzata (ma non solo) da Milton Friedman in Capitalismo e libertà (1962) – inizia la sua resistenza verso il dilagare di una concezione che mal si concilia con le sue idee e visione. Pensa infatti che «la fabbrica non può guardare solo all’indice dei profitti. Deve distribuire ricchezza, cultura, servizi, democrazia».
Adriano Olivetti, potremmo dire, stava disegnando le basi del capitalismo degli stakeholder – verso il quale ora sembrerebbe che il mondo voglia andare, a leggere per esempio il recente volume curato da Enrico Sassoon Per un capitalismo inclusivo – che ha il suo primo fondamento proprio in una concezione dell’impresa e del lavoro diversa da quella propugnata da Friedman & Co.
Olivetti, infatti, pensava «la fabbrica per l’uomo, non l’uomo per la fabbrica», al centro del palcoscenico organizzativo dunque ci doveva essere il benessere della persona e della società, non i guadagni di pochi.
Nella sua visione, poi, la fabbrica si assomigliava a una «comunità», un insieme di persone unite da una comune visione del mondo e dalla pratica di virtù attraverso le quali cercano il bene comune. Avvicinandomi a chiudere questa seconda divagazione di mezza estate mi piace condividere, per la loro straordinaria bellezza, due altri brani di Adriano Olivetti del 1951. Il primo spiega cosa è la «fabbrica comunitaria», il secondo invece riflette sull’importanza dello scopo dell’impresa per cui si lavora, oggi lo chiamiamo «purpose», identificandolo come risposta opportuna e necessaria alla domanda e ricerca di senso che attraversano in modo particolare questo tempo.
«Cos’è questa fabbrica comunitaria? È un luogo di lavoro dove alberga la giustizia, ove domina il progresso, dove si fa luce la bellezza, nei dintorni della quale l’amore, la carità, la tolleranza sono nomi e voci non prive di senso».
Leggendo il brano non vi è forse venuto in mente che qui ci sono i prodromi di alcuni indicatori per misurare la componente «S» e quella «G» nelle quali si articolano gli ESG che oggi dominano la scena economica e finanziaria? Nelle idee e nella visione di Adriano Olivetti non deve sorprendere, infatti, che si ritrovi più di una traccia delle metriche della sostenibilità.
Per chiudere in bellezza, vi propongo il secondo brano scelto per questa divagazione. I sentimenti che descrive vanno letti come conseguenza del farsi realtà, articolandosi nelle forme concrete del lavoro, il concetto di fabbrica comunitaria e dei suoi principi ispiratori.
«La gioia nel lavoro, oggi negata al più gran numero di lavoratori dell’industria moderna, potrà finalmente tornare a scaturire quando il lavoratore comprenderà che il suo sforzo, la sua fatica, il suo sacrificio – che pur sempre sarà sacrificio – è materialmente e spiritualmente legato a una entità nobile e umana che egli è in grado di percepire, misurare, controllare, poiché il suo lavoro servirà a potenziare quella Comunità, reale, tangibile, laddove egli e i suoi figli hanno vita, legami, interessi».
Con queste poche ed ispirate parole si esaltano le virtù di categorie come il «senso del lavoro» che genera motivazione e benessere, nonché il concetto di «beni comuni relazionali», antidoto quest’ultimo della progressiva e distruttiva opera di funzionalizzazione di ogni attività umana a mera prestazione che dimentica la vita.
roberto dice
Il «senso del lavoro» che genera motivazione e benessere. E persone motivate portano ideee ed armonia nel posto del lavoro , utile all’azienda e certezza nel futuro.
Grazie Gab per la condivione ,
Gabriele Gabrielli dice
Grazie a te Roberto per l’apprezzamento. Un caro saluto
gab