Qualche anno fa mi sono appassionato alle storie intrecciate dalle vite dei protagonisti e discendenti dei Florio che, arrivati da Bagnara Calabra in Sicilia alla fine del settecento, costruiscono un impero di attività di ogni genere facendo fortuna, creando ricchezza, tessendo i fili di una complessa e intricata vicenda sociale, economica, politica e culturale. Come qualcuno avrà intuito questo trasporto è nato dalla lettura di due volumi, entrambi divenuti best seller, scritti da Stefania Auci: I leoni di Sicilia. La saga dei Florio uscito nel 2019 e a seguire, nel 2021, L’inverno dei leoni che narrano le vicende di questa famiglia straordinaria ambientate in una Sicilia che incanta con i suoi colori e sapori, con la sua arte e il suo mare.
In questi giorni invece ho tra le mani un nuovo libro, una lettura tra le molte nelle quali cercare un po’ di refrigerio mentale per attraversare il caldo eccezionale. L’ha scritto Salvatore Requirez, è Il leone di Palermo (Piemme 2022) e ricostruisce la vita di Ignazio Florio, figlio di Ignazio Florio Portalupi e della baronessa Giovanna d’Ondes Trigona, nipote di suo nonno Vincenzo Florio, senatore del Regno d’Italia e fondatore della dinastia. Non mi è sembrato vero quando l’ho visto in libreria dov’ero passato a ritirare le mie ordinazioni per l’estate. Prometteva bene anche perché leggevo nel risvolto che l’autore si era servito di numerosi documenti provenienti da archivi inediti.
Ero accarezzato dall’idea, accantonate per un po’ letture più impegnative, poter immergermi nuovamente in una storia così bella e interessante ai miei occhi, ripassando anche fatti storici e politici che hanno contrassegnato il nascere dell’unità d’Italia seppur ancora monarchica. La divagazione che propongo in questa prima riflessione mi viene suggerita subito dalle prime pagine. Quando del padre Ignazio si racconta «la sua genialità imprenditoriale unita a una paternalistica coscienza» nell’aver immaginato, fatto progettare e costruire a fianco a una filanda di proprietà alle falde del monte Pellegrino a Palermo – pensate siamo nel 1873 – un insieme di beni e servizi che oggi etichetteremmo come welfare aziendale. Vi propongo quanto leggo (p.12):
«Ambienti appartati della fabbrica, dove si praticava la tessitura meccanica, vennero riservati ad asilo con tanto di balia per i piccoli figli delle operaie. Altri spazi furono assegnati a una scuola serale aperta alle dipendenti, fornendo libri e materiale scrittorio gratuito».
Asili nido, operatori socio-educativi, scuola, libri: sembra di leggere il menu a tendina di qualche offerta di servizi promossi in un piano di welfare all’avanguardia. Ma non finisce qui perché i Florio pensavano in grande e così Ignazio estese la filiera dei servizi integrando anche altre componenti produttive della sua conglomerata di affari. Leggiamo il prosieguo:
«Era anche prevista una cucina economica e un forno che produceva pane fino a sera. Allestì case economiche per le residenti di lungo tragitto e una cassa di risparmio, della La Previdente, gestita dal Banco Florio, che erogava prestiti ai lavoratori sottraendoli al giogo dell’usura imperante».
Questo accadeva centocinquanta anni fa nel meridione d’Italia e in una nazione che era uscita solo da pochi decenni dai moti indipendentisti del risorgimento e che da poco più di dieci anni stava provando a consolidare la sua unità. Lo so lo so, non è tutto oro quel che riluce: i Florio con una mano si arricchivano, grazie agli accordi con lo Stato che sovvenzionava il loro business principale (la navigazione marittima), facendo mostra in tutta Europa di ville e proprietà nelle quali ospitavano borghesia e nobiltà, e con l’altra cercavano di asciugare (alleviare) le ferite di un popolo povero, malnutrito e sofferente.
Perché il «green-washing» non è pratica recente, ha sempre attecchito nei sistemi economici, solo che ha usato nel tempo forme e tratti diversi, come paternalismo, filantropia, responsabilità sociale. Oggi, nell’epoca sospinta dalle esigenti istanze della sostenibilità, sembrerebbe più facile smascherarlo, quello che si chiede infatti è radicale: ossia cambiare paradigma economico, in una parola l’imperativo è che i modelli di business non possono generare «esternalità negative». Punto e basta. Cosa avrebbe fatto Ignazio Florio? Mi piace immaginarlo mentre, ricordando suo padre e l’amore che teneva verso le maestranze, decide con la fierezza di un leone di convocare, di mattina presto all’Olivuzza, azionisti e manager delle sue società per convincerli a ridurre i profitti anziché il lavoro.
Alessandra dice
Grazie per la condivisione Gab, bello ricordarsi di un noi generoso e magnanimo attraverso la nostra storia
Gabriele Gabrielli dice
Grazie a te!
Mauro Mario Coppa dice
Grazie Gabriele, sempre illuminante e profondo nelle considerazioni e riflessioni. A presto, per una delle tue numerose e interessanti iniziative in presenza. Il tuo compagno di banco. Mauro Mario Coppa
Gabriele Gabrielli dice
Grazie Mauro 🙂