Non si fa che parlare di intelligenza emotiva e delle sue competenze in convegni e seminari, nelle organizzazioni e in azienda, anche nelle scuole e all’università. Nei contesti di lavoro le troviamo soprattutto nei repertori dei modelli di competenze usati dalle imprese per orientare il comportamento dei propri leader e manager, ma si fa un ampio uso del termine anche nelle policy e negli strumenti di performance management, costituiscono frequentemente poi una tra le dimensioni più importanti da osservare durante gli assessment centre in sede di selezione e in quelli previsti dai programmi di sviluppo delle risorse umane. Negli ultimi decenni, in effetti, abbiamo assistito a una crescita continua di attenzione nei riguardi dell’intelligenza emotiva associata, in generale, a quella verso le soft skills, in particolare le people and social skills per sviluppare leader e manager efficaci, capaci cioè di gestire con successo – in quest’epoca di trasformazione inedita guidata dalla rivoluzione digitale – il capitale umano e intellettuale.
Intelligenza emotiva: una concettualizzazione per comprenderne la rilevanza nel business management
La concettualizzazione dell’intelligenza emotiva e le motivazioni che ne supportano la sua rilevanza per il business management prende spunto come noto dai risultati di alcuni studi che hanno reso evidente come l’intelligenza di cui siamo dotati non si fondi solo su un fattore, ma sia multi-fattoriale. Infatti, comprendiamo ciò che ci circonda, apprendiamo e comunichiamo ricorrendo ai sensi e alle emozioni che consentono di “connetterci” con gli altri più efficacemente. Di qui l’importanza assegnata alle competenze di comprensione e decodifica del linguaggio non verbale (comunicazione interpersonale), competenza centrale per leader e manager.
“Comprendiamo, apprendiamo e comunichiamo grazie ai sensi e alle emozioni che ci “connettono” con gli altri più efficacemente.”
Sono due le principali teorie che guidano, da un lato, la ricerca e gli studi sull’intelligenza emotiva e, dall’altro, la definizione di modelli applicativi per realizzare programmi di sviluppo di leadership efficaci. L’una s’ispira ai lavori di Mayer e Salovey, l’altra, invece, trova la sua fonte principale nei lavori di Daniel Goleman e dei suoi collaboratori. Secondo quest’ultimo approccio l’intelligenza emotiva combina le abilità emozionali con elementi della personalità, motivazione e competenze sociali. Questa teoria e le sue applicazioni hanno avuto un indubbio successo, grazie soprattutto all’ampia diffusione che hanno trovato nei programmi di formazione e sviluppo della leadership in tutto il mondo.
Leadership, emozioni e performance
Con il termine intelligenza emotiva, dunque, secondo i numerosi studi realizzati nel campo della psicologia e del comportamento organizzativo, s’intende ormai comunemente l’abilità di scoprire e usare opportunamente i sentimenti e le emozioni proprie e quelle degli altri, distinguerle e comprenderle a fondo in modo da costruire sulle stesse la nostra visione e azione. Accrescere e migliorare le competenze di intelligenza emotiva, piuttosto che concentrarsi solo sull’intelligenza cognitiva, diventa dunque essenziale per le posizioni di guida nei nuovi contesti di cambiamento accelerati dalla trasformazione digitale che costruisce connessioni e interdipendenze tra sempre più numerosi attori. Per ispirare gli altri e costruire organizzazioni durature in un ambiente dai confini incerti e mutevoli, infatti, leader e manager devono essere in grado di “generare la risonanza emozionale che consente a ciascuno di realizzare il proprio potenziale”. Insomma, ci stiamo rendendo conto che per troppo tempo i manager hanno considerato le emozioni alla stregua di un rumore di fondo che disturbava la loro performance e il funzionamento razionale dell’azienda. Quest’epoca però sembra ormai volgere definitivamente al tramonto perché le emozioni hanno trovato piena cittadinanza nel management.
“Per troppo tempo i manager hanno considerato le emozioni alla stregua di un rumore di fondo per il funzionamento razionale dell’azienda.”
La difficile scoperta delle emozioni che la competizione rende silenti. La storia di Alfredo
Non è facile però dare cittadinanza alle emozioni. Questa è l’esperienza di molti executive e manager e sono più numerosi di quanto si possa immaginare quelli che sperimentano situazioni analoghe a quella di Alfredo di cui vi racconto la storia. Gli ostacoli che si frappongono al consentire che le emozioni possano esprimersi liberamente, riconoscendone il valore generativo per sé e per gli altri, sono numerosi e di diversa natura. Possono essere ostacoli collegati all’ambiente culturale e di business in cui si cresce e si fa carriera, possono essere più attinenti alla sfera personale e a come si è fatti, una questione insomma di carattere e di personalità. Rientra nel primo caso la storia di Alfredo, un top executive e imprenditore di successo – “cinquantino” direbbe il commissario Montalbano – che presa la laurea si “guadagna” l’accesso a due tra le più prestigiose business school a livello internazionale. Diventato adulto perde contatto con le emozioni e non le riconosce più come dimensioni “utili”. Scompaiono così dal suo linguaggio, né vi trovano traccia in quello in uso presso le aziende di straordinaria fama in cui lavora negli anni successivi macinando successi e accumulando prestigio. Com’è potuto accadere? Tutto questo ha avuto un inizio. Alfredo, al nostro secondo incontro, mi dice: “tutto ha avuto inizio quando ho cominciato a danzare con la competizione”.
Tutto ha avuto inizio quando ho cominciato a danzare con la competizione.”
Una danza così travolgente che gli fa perdere letteralmente il contatto con il sé più profondo e autentico. “Dov’è finito Alfredo?”, è questa la domanda alla quale vuole dare ora risposta. Alfredo è consapevole di aver fatto l’esperienza della felicità quando era adolescente e poi giovane liceale, ma poi è venuta meno come evaporata nel nulla. Conversiamo nella sessione di coaching per cercare il focus. La “smania da performance” – racconta a un certo punto – “mi ha fatto perdere contatto con la mia dimensione umana”. Ora si rende conto che ha difficoltà a sentire e riconoscere le emozioni, tentenna nell’individuare i suoi bisogni che si celano dietro le emozioni; l’epoca della performance, dei benchmark e del doversi misurarsi continuamente con chi sta sopra a te le hanno silenziate con gran fragore. Ora Alfredo sta cercando disperatamente di connettersi nuovamente con sé, con i suoi valori che ha sacrificato sull’altare del “giudizio altrui”, passo decisivo per essere riconosciuti “primi”. Così, inizia smarrito un percorso di ascolto per accogliere le emozioni che ha reso silenti e dar loro cittadinanza, per riscoprire il lessico che le segnala e che ha dimenticato. E’ talmente impoverito il suo vocabolario, infatti, che non sa più etichettarle; si stupisce grandemente quando fa esperienza di questo riuscendo a menzionare a mala pena tre emozioni. Per Alfredo insomma sembra arrivato il momento di consentire alle emozioni di uscire allo scoperto, di lasciarle fluire, di riconoscerle e utilizzarle come leva per stare bene e per ritrovare quella felicità che ha perduto danzando perdutamente con la competizione. Probabilmente ha intrapreso un viaggio che lo porterà a scoprire che potrà essere più efficace anche come imprenditore e manager. Mentre ci stiamo salutando aggiunge: “anche come marito e padre”. Speriamo.
Le emozioni non sono il superfluo. La storia di Sara
Quella di Sara è una storia diversa, gli ostacoli con cui deve fare i conti per ritrovare le emozioni attengono più alla sfera personale e a come si è fatti, una questione di carattere e di personalità. Sara è un’executive “tutta d’un pezzo” e per nulla incline a riconoscere cittadinanza nel lavoro (e nelle relazioni con i suoi collaboratori) “a ciò che non è essenziale”. E le emozioni, dalla sua prospettiva, rappresentano il superfluo, un di più rispetto a ciò che serve davvero per presidiare processi e per ricondurre tutto sistematicamente alla ferrea logica razionale, per l’analisi maniacale dei fattori che hanno congiurato contro e consentito di raggiungere un risultato al di sotto delle aspettative. Le asticelle, però, continuano ad alzarsi drammaticamente, insieme all’ansia e alla gastrite. Così cresce anche la rabbia con se stessi. Sara esplora, sostenuta dalla mia complicità, le possibilità di cambiare questa situazione, sente il bisogno di cercare un approccio più aperto e improntato a una relazionalità autentica. Sara vorrebbe rompere quel “guscio di acciaio della giusta distanza” che – gli viene da dire a un certo punto – ha costruito sin qui anteponendolo agli altri. Ha paura però di farlo saltare. Si domanda, irrequieta, se tutto questo sia avventato e poco produttivo. In realtà non ne capisce fino in fondo il senso e lotta con quello che sente. Mi racconta che ha paura di fidarsi pienamente di ciò sente. I mesi passano e continua a star male, si accorge di perdere lucidità, le dà fastidio soprattutto che gli altri se ne possano accorgere. Matura quindi la decisione: “le azioni vanno innescate, – mi dice – sono preoccupata, è vero, ma devo far qualcosa per cercare di fare quello che mi si chiede di fare, ossia l’impossibile”. Si ferma a pensare per qualche attimo e poi riprende: “Qui sta il punto: immaginare l’impossibile”. Com’è possibile riuscirci? Dove si possono trovare le risorse per lo “scatto”? Sara si mette a lavorare, con l’aiuto dei suoi collaboratori, per organizzare un incontro con il suo team allargato, quasi cento persone. In un incontro successivo, quando me ne parla per cercare un confronto, la trovo ancora titubante, c’è una voce dentro che continua a dirle che oltre ai piani, alla timeline, ai check-point, ai numeri e alle analisi non c’è altro che meriti davvero attenzione.
“Oltre ai piani, alla timeline, ai check-point, ai numeri e alle analisi.”
Il suo collega che l’aiuta a costruire la sceneggiatura e gli aspetti di comunicazione della giornata la conduce su un territorio che non le piace, le propone una metodologia coinvolgente, “dove le distanze saltano”, dove i bisogni di realizzazione del team possono esprimersi e liberare le emozioni. Resiste, non vuole cedere. La incoraggio. “Cosa potrà succedere?”, le domando.
Le emozioni: un acceleratore straordinario
Quando la incontro di nuovo mi dice subito con occhi grandi e luminosi: “oggi ti devo raccontare una cosa incredibile”. Intuisco, ci sediamo e con le lacrime agli occhi, contenta di averle, racconta: “Mi sono molto emozionata, ho provato felicità”. Continua tutto d’un fiato: “E’ stato un incontro entusiasmante, ho visto le mie persone diverse da come le immaginavo, con un’energia inaspettata. Da non crederci. Stanno lavorando diversamente, forse hanno visto in me una Sara diversa. Solo cinque persone hanno detto che quello che dobbiamo fare è impossibile”. Tra i molti apprendimenti che ha tratto da questa esperienza, per lei del tutto inedita, mi segnala con convinzione: “Le emozioni sono un acceleratore straordinario, vanno usate. Prima bisogna riconoscerle e accoglierle e su questo ho molto da lavorare. Ma non si può arrivare alle persone solo con la testa”. Ora che hai provato questo, come stai?, le chiedo. Cosa è cambiato? E lei, con gli occhi lucidi: “Sono felice di commuovermi e sentire che gli altri mi vedono diversa”. Sorridendo aggiunge: “mai più senza”.
“Non si può arrivare alle persone solo con la testa.”
Suggerimenti bibliografici
- Gabriele Gabrielli, Sviluppare le competenze per il “people management”, in Gabrielli G, Profili S., Organizzazione e gestione delle risorse umane, Isedi, Torino 2016 (II^ edzione)
- Gabriele Gabrielli, “People management skills. quanto sono importanti per far ripartire lo sviluppo?”;
- Gabriele Gabrielli, “Digital transformation: come cambia la leadership?”;
- Gardner H., Formae mentis. Saggio sulla pluralità dell’intelligenza, Feltrinelli, Milano, 1987
- Goleman D., Working with emotional intelligence, Bantam Books, New York, 1998
- Mayer J., Salovey P., What is emotional intelligence?, in Salovey P., Sluyter D. (eds), Emotional development and emotional intelligence: Implications for educators, Basic Books, New York
- Riggio R.E., Lee J., “Emotional and interpersonal competencies and leader development”, in Human Resource Management Review, Elsevier, 17, pp. 418-426
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